LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI PRIMO GRADO Ha pronunciato la seguente ordinanza. F A T T O Con ricorso presentato in data 10 febbraio 1984, registrato al n. 84/12463, il contribuente impugnava tempestivamente il silenzio- rigetto della locale intendenza di finanza alla istanza di rimborso dell'Irpef, alla quale era stata sottoposta la indennita' corrispostagli dalla Sip, al termine del rapporto di lavoro dipendente. Assumeva in proposito che l'indennita' in questione ha natura previdenziale e come tale deve essere esente da tassazione, al pari di erogazioni analoghe, fra cui, cita, quelle relative alle assicurazioni sulla vita. La censura investe, anche, i termini, concessi per la richiesta di rimborso, diversificati in decennali od in diciotto mesi, come da previsioni degli artt. 37 e 38 del d.P.R. n. 602/1973, in contrasto, sostiene, con gli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione. L'intendenza di finanza resiste, eccependo la intempestivita' della istanza di rimborso, pervenuta oltre i termini di decadenza di diciotto mesi, come da art. 38 del d.P.R. n. 602/1973, e come espressamente richiamato dall'art. 4 della legge n. 482/1985, che ha modificato il trattamento fiscale della indennita' di fine lavoro dipendente, in senso piu' favorevole per il contribuente. M O T I V I Il ricorso ripropone il dibattuto problema del trattamento tributario della indennita' di fine rapporto, con riferimento, al termine entro il quale il privato, che abbia beneficiato della detta indennita', ma abbia subito, in relazione ad essa, un trattamento fiscale piu' gravoso di quello successivamente introdotto dalla legge n. 482 del 26 settembre 1985, possa richiedere il rimborso della maggiore somma indebitamente trattenuta. E' noto che la legge n. 482/1985 aveva introdotto una attenuazione del rigore fiscale che colpisce il T.F.R.; la Corte costituzionale non ha ritenuto sufficiente tale attenuazione, dichiarando quindi, con sentenza 7 luglio 1986, n. 178, la illegittimita' costituzionale parziale di tale legge in relazione, peraltro, solo alla indennita' di buonuscita, liquidata dall'E.N.P.A.S., in favore dei dipendenti statali, collocati in quiescenza, il cui piu' favorevole trattamento fiscale e' costituzionalmente legittimo, secondo la Corte, in quanto l'indennita' suddetta e' in parte formata con versamenti contributivi a carico del lavoratore. Per quanto riguarda invece i dipendenti di datori di lavoro privati, la legge n. 482/1985 e' rimasta ferma, ed in tal caso, secondo la tesi dell'amministrazione finanziaria, l'interessato che abbia percepito un trattamento di fine rapporto (T.F.R.) gravato di una ritenuta fiscale superiore a quella introdotta dalla legge n. 482/1985 (il caso ricorre ovviamente per quei dipendenti che siano stati collocati a riposo prima dell'entrata in vigore di quest'ultima normativa), puo' richiedere il rimborso della differenza non piu' dovuta (in base alla nuova normativa) nel termine di diciotto mesi dalla definizione del rapporto, intesa come corresponsione del T.F.R. stesso. Cio' in forza dell'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973, regolante tutti i casi di versamento diretto (in favore dell'amministrazione finanziaria) effettuati dal privato debitore d'imposta, ovvero, in suo luogo e vece, dal datore di lavoro quale sostituto d'imposta. Secondo tale interpretazione, si noti, anche le ritenute riguardanti le buonuscite corrisposte dall'E.N.P.A.S., sarebbero soggette all'art. 38 e non al termine di prescrizione decennale, di cui all'art. 37 stesso d.P.R., in quanto l'E.N.P.A.S. costituirebbe una amministrazione separata da quella statale (in tal senso Cass. s.u. n. 2786/89 e Cass. n. 4318/1989). In realta' e' stato sostenuto in dottrina che anche le ritenute effettuate dall'E.N.P.A.S possono considerarsi come poste in essere direttamente dalla pubblica amministrazione, anche se ad opera di un soggetto dotato di autonomia, ma pur sempre facente parte dell'organizzazione statuale. Ma nel caso in esame tale problema non interessa poiche' il contribuente non era dipendente pubblico. Nel caso, quindi, sara' applicabile l'art. 4 della legge n. 482/1985 senza le modificazioni introdotte dalla sentenza "additiva" n. 178/1986 della Corte costituzionale. Il meccanismo dei termini previsti dal cit. art. 4 e' assai complesso: in principalita' e' prevista l'applicazione del nuovo re- gime ai giudizi pendenti ovvero ai casi nei quali non risulti, alla data di entrata in vigore della legge stessa, ancora decorso il termine di diciotto mesi di cui al cit. art. 38 (ancora se l'istanza era stata presentata anteriormente al 1º gennaio 1982 e non era, a tale data, ancora decorso il termine per il ricorso alle commissioni tributarie di cui all'art. 37 stesso d.P.R., (termine di novanta giorni contro la decisione negativa od il silenzio rigetto dell'intendente di Finanza); infine la riliquidazione puo' avvenire se l'istanza di riliquidazione fu presentata tempestivamente dopo il 31 dicembre 1981. Tutte le ipotesi teste' indicate consentono in definitiva, la applicazione del nuovo regime ai soli casi ancora non definiti per avvenuto decorso del termine dei diciotto mesi di cui all'art. 38 del precitato decreto. Nel caso in esame detto termine risulta decorso prima che il contribuente assumesse alcuna iniziativa, per cui a termini della legge vigente il ricorso non potrebbe che essere respinto per tardivita' rispetto al termine di decadenza stabilito dalla legge (cio' evidenzia la rilevanza concreta della questione). Va tuttavia osservato quanto segue: 1) la legge prevede termini diversi, il primo di prescrizione ed il secondo di decadenza, nei due casi previsti dall'art. 37 (contribuente assoggettato a ritenuta diretta da parte dell'amministrazione pubblica) e dall'art. 38 (contribuente che ha effettuato il versamento diretto, anche tramite sostituto d'imposta, come dalla gia' ricordata giurisprudenza della Cassazione). La conseguenza e' che, di fronte ai dieci anni entro i quali il contribuente puo' invocare la correzione degli errori compiuti dal datore di lavoro pubblico, stanno i diciotto mesi entro i quali egli puo' invece richiedere la eliminazione degli errori compiuti (da lui ovvero) dal datore di lavoro privato. La Differenza appare razionale data la differenza dei presupposti, nei casi in cui il contribuente abbia sbagliato in proprio (anche se la relativa brevita' del termine dell'art. 38 potrebbe lasciare spazio per qualche dubbio); manca invece la possibilita' di trovare razionale, rispetto ai diritti del contribuente, il caso in cui l'errore sia stato commesso dal datore di lavoro privato, che assume si', di fronte al Fisco, la veste del sostituto d'imposta, ma non ha un ruolo diverso dal datore di lavoro pubblico agli occhi, e rispetto agli interessi, del lavoratore dipendente. La disparita' di trattamento dei due casi appare, rispetto alla doverosa tutela dei diritti del contribuente, ingiustificata sia in base a criteri di sostanziale (e non formalistica) ragionevolezza, sia alla luce degli artt. 3 e 53 della Costituzione (rispettivamente tendenti alla parita' di trattamento dei casi uguali ed alla giustizia distributiva della imposizione fiscale, che sarebbe violata nel caso di irripetibilita' di una contribuzione non dovuta); 2) a parte il rilievo che precede, del tutto arbitraria ed ingiustificata appare la esclusione della possibilita' di richiedere i benefici in caso di termini dei diciotto mesi interamente consumatosi prima della emanazione della legge n. 482/1985: infatti, prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni una eventuale richiesta tendente alla applicazione dei benefici che la stessa ha introdotto, sarebbe stata giuridicamente infondata ed improponibile per indeterminabilita' assoluta dell'ammontare del beneficio (non suffragato da alcuna norma): al limite era proponibile soltanto una generica richiesta di minore imposizione, che non pare tuttavia possa assurgere ad onere dalla cui inosservanza derivi la decadenza dal diritto, solo successivamente riconosciuto. Si aggiunga la considerevole efficacia dissuadente che la conoscenza della mancanza (al momento) di un riconoscimento legislativo della pretesa, poteva esercitare sulla massa dei contribuenti, ostacolo di fatto all'esercizio del diritto, il cui peso non puo' essere tranquillamente ignorato come se non esistesse; inoltre va ricercato che qualunque iniziativa giudiziaria del contribuente era destinata a rimanere insoddisfatta se il legislatore, timoroso di un intervento della Corte costituzionale, non fosse intervenuto con una riforma rispetto alla quale comunque il privato era del tutto privo di ogni potere di incidenza. In realta' il termine entro il quale richiedere il rimborso non puo' non iniziare a decorrere se non dopo l'entrata in vigore della legge che attribuiva il diritto ed in tale senso l'opposta disciplina normativa contenuta nell'art. 4 della legge 482/1985 appare illegittima per ingiustificata, irrazionale ed arbitraria limitazione del diritto di azione in giudizio a tutela del diritto che pone in essere una violazione dell'art. 24 primo comma della Costituzione. Rispetto ad essa non appare sufficiente rimedio (oltremodo parziale) la possibilita' di richiedere la riliquidazione all'intendenza di finanza, ai sensi dell'art. 5 stessa legge, che prevede comunque un termine di decadenza della richiesta, ancora piu' ridotto (novanta giorni) e che inoltre si limita a consentire la riliquidazione soltanto sulle somme percepite dopo il giorno 1º gennaio 1980, con arbitraria esclusione del periodo precedente ancorche' infradecennale ai fini della prescrizione del diritto. Per i sopra esposti motivi gli atti vanno rimessi alla Corte costituzionale.